mercoledì 19 giugno 2013

Chi vuole LEGGERE un pezzetto di OBSIDIAN (J.L.Armentrout)?

Primo giorno di maturità per moltissimi ragazzi e moltissime ragazze. Tempo di esami universitari. Oggi, voglio farvi un regalino. So che molti attendono con ansia l'uscita di Obsidian di J.L. Armentrout. Ecco quindi a voi un breve estratto in anteprima...



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Fissavo gli scatoloni impilati nella mia nuova stanza e deside- ravo tanto avere già il collegamento a internet. Da quando ci eravamo trasferite, non ero più riuscita a scrivere niente sul mio blog e mi sentivo come se mi avessero tagliato un braccio o una gamba. Mia mamma sosteneva che «Katy e i suoi libri» fosse tutta la mia vita. Non era proprio così, ma aveva comunque la sua importanza. Cosa poteva saperne lei, del resto? Non amava leggere quanto me.
Sospirai. Eravamo arrivate da due giorni e la casa era ancora piena di scatoloni. Odiavo trovarmeli fra i piedi. Almeno quanto odiavo essere qui.
Se non altro avevo smesso di saltare a ogni minimo scric- chiolio, come avevo fatto ogni santo giorno da quando ci erava- mo stabilite nella cara vecchia West Virginia, e più precisamente nella casa degli orrori. Aveva persino una torretta... ebbene sì. Che diavolo avrei dovuto farmene di una torretta?
Ketterman non era nemmeno una vera città. Il posto più vicino era Petersburg, una cittadina con un paio di incroci al massimo, circondata da altri paesotti sicuramente sprovvisti di Starbucks. La posta non ci arrivava a casa. Dovevamo andarcela a prendere a Petersburg.
Roba da matti.

 
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All’improvviso mi resi conto che la Florida era andata. Era stata divorata, insieme ai chilometri che avevamo macinato per arrivare fin qui, dalla fissazione di mia madre di voler rico- minciare da capo. Fu come ricevere un calcio in faccia: non mi mancava Gainesville o la mia vecchia scuola e nemmeno il nostro appartamento. Mi appoggiai alla parete.
Mi mancava papà.
E la Florida era papà. Quello era il luogo dove era nato, dove aveva conosciuto la mamma e dove tutto era perfetto... finché le cose non avevano iniziato a precipitare. Sentivo arrivare le lacrime, ma mi rifiutavo di piangere. Non sarebbe servito a niente e papà ci sarebbe rimasto male se avesse saputo che sua figlia, dopo tre anni, piangeva ancora.
Mi mancava anche la mamma, però. La mamma di prima che papà morisse, quella che si rannicchiava sul divano accanto a me a leggere uno dei suoi orrendi romanzetti rosa. Ormai sembrava solo un ricordo lontano. Lontano mezzo paese.
Da quando papà era morto, la mamma era sempre a lavorare. Prima le piaceva stare a casa, ma senza di lui aveva solo voglia di scappare il più lontano possibile. Alla fine aveva ceduto e un giorno aveva deciso che dovevamo andarcene. Da quando era- vamo arrivate, anche se continuava a lavorare come una pazza, sembrava determinata a essere più presente nella mia vita.
Avevo appena deciso di ignorare il mio solito senso del do- vere e fregarmene degli scatoloni ancora per un giorno, quan- do un odore familiare mi solleticò le narici. La mamma stava cucinando. Brutto segno.
Mi precipitai di sotto.
Era ai fornelli, indossava la divisa da infermiera a pois. Solo lei poteva vestirsi a pois dalla testa ai piedi senza sembrare ridicola. Aveva splendidi capelli biondi, lisci come spaghetti, e luminosi
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occhi color nocciola. Anche in quella tenuta mi faceva sfigurare, con i miei banalissimi occhi marroncini e capelli castani.
Il destino aveva voluto che fossi anche piuttosto... rotondet- ta. Le forme morbide, le labbra carnose e gli enormi occhi, che tanto piacevano alla mamma, in realtà mi facevano assomigliare a un bambolotto stupido.
Mia madre si voltò e mi salutò con un mestolo di legno, spargendo pezzi d’uovo sui fornelli. «Buongiorno, tesoro.»
Rimasi immobile a guardare il disastro che aveva combinato, cercando di capire come fare a dare una sistemata senza urtare i suoi sentimenti. Dopotutto si stava sforzando di fare la mamma. Ed era un gigantesco passo avanti. «Sei tornata prima.»
«Ho fatto quasi il doppio turno tra ieri notte e oggi. So già che dovrò lavorare da mercoledì a sabato, dalle undici di sera alle nove di mattina. Quindi mi restano tre giorni liberi. Stavo quasi pensando che potrei lavorare part-time in una delle clini- che qui nei dintorni, o magari a Winchester.» Grattò via le due uova dalla padella e me ne mise uno mezzo bruciato davanti.
Gnam gnam. Capii che era troppo tardi per intervenire, quindi iniziai a rovistare in uno scatolone con su scritto “Po- sate e varia”.
«Uno di questi giorni vado a sentire... lo sai che non mi piace starmene con le mani in mano.»
Sì, lo sapevo.
Gran parte dei genitori si sarebbe tagliata il braccio sinistro piuttosto che lasciare la figlia adolescente da sola tutto il tempo, ma non lei. Lei si fidava di me, perché non le avevo mai dato motivo per non farlo. Eppure ci avevo provato. Evidentemente non abbastanza.
Okay, ero la classica brava ragazza.Fra i miei vecchi amici in Florida non ero quella più tran-7
quilla, ma a scuola ci andavo sempre, avevo la media alta e mi comportavo bene. Non lo facevo per paura, solo che non volevo dare altre preoccupazioni alla mamma...
Recuperai due bicchieri e li riempii con il succo d’arancia che la mamma doveva aver comprato di ritorno a casa. «Vuoi che vada a fare la spesa, oggi? Non c’è più niente.»
Lei annuì e a bocca piena rispose: «Sei un amore, sarebbe fantastico». Afferrò la borsa che aveva lasciato sul tavolo e tirò fuori dei soldi. «Questi dovrebbero bastare.» Me li infilai in tasca senza nemmeno contarli, tanto mi dava sempre molto più del necessario. «Grazie» borbottai.
La mamma mi fissò con una strana luce negli occhi. «Sai... oggi ho visto una cosa interessante.»
Ah, che pazienza. Sorrisi. «Cosa?»
«Avevi notato che i vicini sono due ragazzi pressappoco della tua età?»
Drizzai le orecchie come un cane da caccia. «Ah, sì?»
«Non sei ancora uscita, vero?» Mi sorrise di nuovo. «Credevo che ti fossi già messa al lavoro in giardino.»
«Andrò a vedere, ma sai com’è, gli scatoloni non si disfano da soli.» Le rivolsi un’occhiata di sfida. La adoravo ma l’ordine non era proprio il suo forte. «Comunque, stavi dicendo?»
«Ah sì, allora, sono una ragazza su per giù della tua età e un ragazzo.» Mentre si alzava, le apparve un ghigno sulle labbra. «Figo.»
Mi rimase un pezzettino d’uovo incastrato in gola. Sentire la mamma fare commenti sui ragazzi della mia età mi dava il vol- tastomaco. «Mamma, per favore, da quando in qua dici “figo”?»
Lei si allontanò dai fornelli, recuperò il mio piatto e andò al lavandino. «Tesoro, sarò anche vecchia, ma gli occhi mi funzio- nano ancora. E poco fa hanno funzionato benissimo.»
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La guardai doppiamente schifata. «Non mi diventerai una di quelle che fanno gli occhi dolci ai ragazzini? Crisi di mezza età o devo iniziare a preoccuparmi davvero?» La mamma mi lanciò un’occhiata, continuando a lavare i piatti. «Katy, potresti almeno fare lo sforzo di andare a cono- scerli. Non sarebbe male se faceste amicizia prima dell’inizio della scuola.» Sbadigliò. «Potrebbero farti conoscere la città, non credi?»
Non volevo neanche pensare al primo giorno di scuola, con tutta quella gente nuova. Buttai metà uovo nella spazzatura. «Sì, mi piacerebbe. Ma non andrò a supplicarli di essere miei amici.»
«Non si tratta di supplicare. Se solo indossassi uno di quei bei vestitini estivi che portavi in Florida, invece che questa...» e mi tirò l’orlo della maglietta «potresti flirtare
Abbassai lo sguardo. Sul davanti della mia maglietta c’era scritto IL MIO BLOG È MEGLIO DEL TUO VLOG. Che c’era di sbagliato? «Tanto varrebbe uscire direttamente in mutande.»
Lei si tamburellò il mento con l’indice. «Be’, di sicuro non passeresti inosservata...»
«Ma che dici, mamma!» Scoppiai a ridere. «Dovresti essere proprio tu a sgridarmi e dirmi che non è affatto una buona idea!»
«Bambina mia, lo so che piuttosto che fare qualcosa di stu- pido, ti butteresti dalla finestra. Ma almeno, una volta tanto, provaci.»
Il problema era che non sapevo “provarci”.
Sbadigliò di nuovo. «Tesoro, credo che andrò a dormire un po’.»
«Va bene, allora dopo passo a comprare qualcosa da man- giare.» E magari anche del terriccio e qualche pianta. Il prato davanti casa era una vergogna.
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«Katy?» La mamma era ferma sulla soglia con le sopracciglia aggrottate.
«Sì?»
Un’ombra calò sul suo sguardo. «So che trasferirsi qui è stata dura per te, soprattutto perché è l’ultimo anno di scuola, ma era la cosa migliore che potessimo fare. Restare in quell’apparta- mento, ora che tuo padre non... Avevamo bisogno di ricomin- ciare a vivere. Anche lui l’avrebbe voluto.»
La tristezza che credevo di essermi lasciata alle spalle tornò a tormentarmi. «Lo so, mamma. Sto bene, tranquilla.»
«Sicura?» Le sue dita si chiusero e i raggi di sole che filtra- vano dalle tende per un attimo fecero brillare la fede d’oro che portava all’anulare.
Annuii con decisione. «Certo. E sai cosa ti dico: dopo vado a bussare ai vicini. Magari gli chiedo dov’è l’alimentari. Ci provo, insomma.»
«Splendido! Se ti serve qualcosa chiamami, okay?» Un al- tro sbadiglio e gli occhi le diventarono lucidi. «Ti voglio bene, tesoro.»
Stavo per dirle che le volevo bene anch’io ma scomparve di sopra prima che riuscissi ad aprire bocca.
Almeno stava cercando di cambiare. Il minimo che potessi fare era sforzarmi un po’, invece di rintanarmi nella mia stanza incollata al computer, come lei temeva che avrei fatto. Il proble- ma era che andare a conoscere persone nuove non era proprio nel mio stile. Io ero più il tipo che legge sempre o risponde ai commenti sul proprio blog.
Nella mente mi risuonavano le parole d’incoraggiamento preferite di mio padre. «Su, Kittycat, non guardarti vivere.» Rad- drizzai le spalle. Papà non si era mai guardato vivere...
E chiedere indicazioni per il supermercato più vicino era 10
una scusa più che plausibile. Se la mamma ci aveva visto bene ed erano davvero della mia età, forse non sarebbe stato un fia- sco totale. Era una stupidaggine, ma l’avrei fatto. Attraversai il prato e imboccai il vialetto di corsa, prima di farmela addosso e cambiare idea.
Salii le scale saltellando, aprii la porta a zanzariera e bussai, poi arretrai di un passo e mi lisciai le pieghe della maglietta col palmo della mano. Okay, ci siamo. Non c’è nulla di strano nel chiedere un’informazione.
Dall’altra parte si udirono dei passi pesanti, poi la porta si spalancò e mi ritrovai davanti un petto ampio e muscoloso. E nudo. Abbassai lo sguardo e rimasi... senza fiato.
Quel ragazzo aveva addominali pazzeschi. Perfetti. Di quelli che ti fanno venire voglia di allungare una mano. Non me lo sarei aspettata da un ragazzo di diciassette anni, ovvero l’età che credevo avesse, ma non osavo lamentarmi. Né parlare. Guar- davo e basta.
Quando finalmente riuscii a sollevare lo sguardo, vidi un paio di zigomi alti e, nascosti da ciglia lunghe e folte, due occhi che mi fissavano.
«Sì?» Le sue labbra piene, da baciare, s’incresparono in una smorfia d’impazienza.
Aveva una voce ferma e profonda, il tipo di voce di chi è abituato a essere ascoltato e accontentato senza obiezioni. Gli occhi erano di un verde talmente brillante che non pote- va essere vero, un verde smeraldo che spiccava sul quel viso abbronzato.
«Pronto?» fece lui appoggiando una mano allo stipite della porta e sporgendosi in avanti. «Hai perso la lingua?»
A quel punto mi ricordai di respirare e indietreggiai di un passo, arrossendo per l’imbarazzo.
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Il ragazzo sollevò una mano per scostarsi un ricciolo dalla fronte. Guardò alle mie spalle, poi di nuovo me. «Quindi?»
Volevo morire, ma dissi ugualmente: «Mi... mi stavo chie- dendo se per caso sapresti indicarmi il supermercato più vicino. Mi chiamo Katy. Mi sono trasferita nella casa accanto». Gliela indicai come un’idiota. «Due giorni fa, tipo...»
«Lo so.»
Oooccheeeeeeeei. «S-ssì, e quindi speravo che qualcuno sa- pesse indicarmi la strada più breve per il supermercato e magari anche un negozio che vende piante.»
«Piante.»
Qualcosa mi diceva che non era una domanda ma mi affret- tai comunque a rispondere. «Già, il giardino davanti...»
Lui alzò solo il sopracciglio, come se fosse disgustato, e m’in- terruppe: «Okay». Non disse altro.
L’imbarazzo stava lentamente cedendo il posto alla rabbia. «Insomma, sì, mi servono delle piante...»
«Per il giardino. Ho capito.» Appoggiò il fianco contro lo stipite e incrociò le braccia. Una strana luce gli balenò negli occhi verdi. Non era impazienza, però.
Respirai di nuovo a fondo. Se mi interrompeva un’altra volta... Optai per il tono che usava mia madre quando da piccola mi sorprendeva con un oggetto appuntito in mano. «Cerco un negozio dove poter comprare generi alimentari e piante.»
«Tu lo sai che c’è solo un incrocio in questa città, vero?» Teneva entrambe le sopracciglia alzate ora, come se si stesse domandando come facevo a essere così tonta, così capii cos’era quella luce che avevo visto nel suo sguardo. Si divertiva a met- termi in imbarazzo.
Per un attimo non feci altro che fissarlo. Era il ragazzo più 12
bello che avessi mai visto ma anche uno stronzo totale. Figu- rarsi. «Senti, volevo solo delle indicazioni. Ma evidentemente devo aver scelto il momento sbagliato.»
Lo vidi sollevare un angolo della bocca. «È sempre il mo- mento sbagliato, piccola.»
«Piccola?» ripetei, sgranando gli occhi.
Di nuovo quel sopracciglio alzato. Stavo cominciando a in- nervosirmi sul serio.
«Non sono piccola. Ho diciassette anni.»
«Ah, è così?» disse lui divertito. «Io te ne avrei dati dodici. No. Forse tredici, mia sorella ha una bambola di là che mi ri- corda proprio te. Tutta occhi, con la faccia da tonta.»
Gli ricordavo una bambola? Una bambola tonta? Un gran ca- lore mi si formò in petto invadendomi la gola. «Però. Carino. Mi spiace di averti disturbato. Non succederà più. Puoi contarci.» Mi voltai per andarmene prima di cedere alla voglia di tirargli un pugno in faccia. O mettermi a piangere.
«Ehi» disse lui.
Mi fermai all’ultimo scalino senza voltarmi, però, perché non volevo che vedesse quant’ero sconvolta. «Cosa?»
«Prendi la Statale 2, poi gira all’altezza della 220 nord, non sud. È la strada che porta a Petersburg.» Poi emise un sospi- ro come se mi stesse facendo un enorme favore. «Foodland è proprio in centro. Non si può non vederlo. Be’, tu non lo so... Comunque, c’è una ferramenta accanto, mi pare. Dovrebbero avere anche roba da giardino.»
«Grazie» mormorai e sottovoce aggiunsi «coglione».
Lui scoppiò a ridere di gusto. «Questa non me l’aspettavo da una signorina come te, Kittycat.»
Mi girai di scatto. «Non chiamarmi mai più così» sbottai. «Meglio che sentirsi dare del coglione, no?» E si allontanò
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dalla porta. «È stato proprio un incontro interessante. Ne ser- berò a lungo il ricordo.»
Okay. Basta così. «Sai una cosa? Hai ragione. Non sei un co- glione.» Sorrisi educatamente. «Sei proprio una testa di cazzo.»
«Testa di cazzo» ripeté lui. «Affascinante.»Sollevai il dito medio.Lui rise di nuovo e chinò un po’ la testa. Una cascata di boc-coli gli ricadde sulla fronte oscurando per un attimo il verde dei suoi occhi. «Che eleganza, Kitty. Chissà quante parole dolci e gesti simpatici avresti in serbo per me, ma purtroppo non sono interessato.»
Non aveva idea di quante ancora gliene avrei potute dire e fare, ma decisi di tenermi stretta la mia dignità e me ne andai senza dargli la soddisfazione di vedere quanto fossi incazza- ta. Evitavo sempre le discussioni, ma quello mi faceva saltare i nervi come pochi. Arrivata alla macchina, aprii lo sportello con violenza.
«Ci si vede in giro, Kitty!» fece lui e ridendo si chiuse dietro la porta di casa.
Lacrime di rabbia e imbarazzo mi salirono agli occhi. Infilai la chiave e ingranai la retromarcia. Secondo la mamma, dovevo almeno provarci. Ecco cosa accadeva a chi ci provava. 

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